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Cyberstalking: le persecuzioni ai tempi dei social network

di Luigi Dell’Aquila


Circa dieci anni fa la L. 23 aprile 2009 n. 39 ha introdotto nel panorama penalistico italiano, all’art. 612-bis c.p., il reato di atti persecutori, meglio noto con il termine mediatico di stalking. L’emergenza sociale di reati a scopo vessatorio, perpetuati soprattutto nei confronti delle donne, aveva spinto il legislatore ad una repentina scelta di politica criminale con la creazione di una nuova fattispecie delittuosa. L’assetto normativo sino ad allora vigente, che tipizzava il delitto di minaccia (art. 612 c.p.) e la contravvenzione della molestia (art. 660 c.p.), non riusciva a garantire una adeguata punibilità a talune condotte che, facilmente, sfuggivano al dato letterale in forza del principio di tassatività e del divieto di analogia in malam partem in materia penale. Il soggetto agente del reato di atti persecutori, detto anche stalker, pone in essere una condotta offensiva al bene giuridico della libertà individuale della vittima tale da affliggerla, perseguitarla, provocarle gravi stati d’ansia e di paura, indebolirla psicologicamente fino a generarle anche patologie di tipo paranoide o disturbo della personalità. Il fenomeno persecutorio trova il suo nido nelle relazioni interpersonali, spesso di tipo amoroso o fortemente affettivo, le quali, qualora terminino per volontà unilaterale di uno dei due soggetti, generano nell’altro manie persecutorie che si manifestano in una escalation di atti di gelosia, invidia, vendetta. L’art. 612-bis c.p. disciplina un reato d’evento, che si considera consumato soltanto nel caso in cui la condotta dello stalker realizzi nei confronti della persona offesa “un perdurante e grave stato d’ansia o di paura ovvero a costringere taluno a modificare le proprie abitudini di vita” (cfr. comma 1). L’inciso della norma de qua rileva la profondità e l’ingerenza che deve essere provocata dalla condotta dello stalker, la quale assumerà rilevanza penale soltanto qualora possa apprezzarsi il mutamento delle mansioni quotidiane compiute dalla persona offesa sino a quel momento. Non a caso il termine “stalking” deriva dal verbo inglese “to stalk” ossia entrare furtivamente. Lo stalker, di fatto, fa ingresso nella vita della vittima con la sua presenza abusiva, divenendo sia un ospite indesiderato sia un invadente protagonista. Il reato di atti persecutori è, altresì, un reato a forma libera. Infatti, lo stalker consuma il reato indipendentemente dalle modalità di condotta e dai mezzi utilizzati, purché generi l’evento testé descritto nei confronti della vittima. Tale caratteristica è quotidianamente al vaglio delle interpretazioni dei giudici di legittimità, i quali, nel corso degli anni, hanno delineato delle ipotesi di condotta che possono integrare il reato in parola, ad es. anche la mera presenza nei pressi del domicilio o del luogo di lavoro della vittima, volta ad intimidire, pur senza perpetuare alcun comportamento violento o professare alcuna minaccia, è stata considerata di natura persecutoria. Infine, il reato di atti persecutori è un reato abituale, che si considera consumato soltanto nel caso in cui il soggetto agente abbia posto in essere una serie di condotte reiterate tali da essere apprezzate in un idoneo lasso di tempo (c.d. serie causale). Su quest’ultimo profilo, invero, occorre rammentare come il diritto vivente abbia, in qualche modo, ristretto le maglie del concetto di reato abituale rispetto ad altre fattispecie di reato, come quella dei maltrattamenti in famiglia. L’orientamento maggioritario ritiene consumato il reato di atti persecutori anche in presenza di una sola condotta, posta in essere nell’arco di un solo giorno, ai danni della persona offesa purché integri tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie. Nondimeno, l’architettura della fattispecie di reato così introdotta ha fin da subito mostrato i suoi punti deboli e la scarsa lungimiranza cui poteva aspirare a causa di un legislatore particolarmente pigro a cogliere gli accorgimenti e gli spunti che venivano forniti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. Nel 2009, i social network e gli altri strumenti multimediali, oltre ad essere un numero ridotto rispetto ad ora, non avevano ancora sprigionato la loro attitudine a diventare altresì uno strumento di offesa oppure un mezzo per delinquere. La fattispecie, fin troppo indeterminata e inadeguata al liquido mondo del web, lascia sfornite di tutela numerose condotte perpetuate dagli stalker attraverso il mondo di Internet e ancora una volta scarica alla giurisprudenza il pruriginoso compito di provvedere, in via interpretativa e fin dove possibile, a colmare le lacune legislative.

Che cos’è, quindi, il cyberstalking?

Si tratta di un neologismo giuridico che non trova un esplicito riferimento nell’attuale panorama normativo e che deve la sua struttura, ancora embrionale, al lavoro ermeneutico condotto dalla giurisprudenza di legittimità. Il cyberstalking si riferisce a tutte quelle condotte persecutorie e vessatorie eseguite per mezzo di internet, volte a generare un grave stato d’ansia e di paura, nonché a modificare le proprie abitudini. Per esempio, l’invio di un alto numero di messaggi email spesso dal contenuto offensivo o minaccioso ovvero, altresì, meramente preordinato ad intasare la casella di posta e obbligare la persona offesa a crearne uno nuovo. Lo strumento della posta elettronica permette al cyberstalker, inoltre, di introdursi nel sistema informatico della vittima allegando a messaggi di posta apparentemente innocui i cc.dd. trojan horse, ossia virus capaci di violare i livelli di sicurezza informatica del dispositivo. Una particolare riflessione meritano i social network (Facebook, Instagram, Twitter, LinkedIn) e le applicazioni di messaggistica istantanea (WhatsApp, Telegram), poiché generano facilmente delle condotte di persecuzione e vessazione come la diffusione di materiale inerente alla persona offesa (si pensi a video, foto o chat) che viene immesso nel circuito internet senza il suo consenso. Il fenomeno cibernetico de quo esalta ancora di più la carica offensiva delle condotte tradizionali dello stalker, in quanto, attraverso piccoli accorgimenti nemmeno troppo complessi, egli è messo nelle condizioni di agire in totale anonimato abbattendo drasticamente la percentuale di rischio di essere scoperti. Dunque, i cc.dd. fake account, ossia i profili falsi che non rappresentano la vera identità dell’utilizzatore, divengono la maschera, la schermatura dietro la quale il cyberstalker si cela e consuma le proprie condotte indisturbato e rafforzato nel suo proposito criminoso dalla potenziale incapacità della persona offesa di individuarlo e rintracciarlo.

La Suprema Corte, in una recente sentenza, si è pronunciata sulla rilevanza penale della condotta di un utente di Facebook, il quale, dopo aver intitolato una pagina in modo dispregiativo nei confronti di una sua coetanea, aveva diffuso del materiale offensivo. L’imputato lamentava il difetto di tipicità, perché l’utilizzo dei social network come strumento di condotta non sarebbe ascrivibile al reato di cui al capo d’imputazione per il quale sia il Tribunale che la Corte territoriale lo avevano ritenuto responsabile. Diversamente, i giudici di Piazza Cavour, rigettando il ricorso dell’imputato, hanno ritenuto che tali condotte di cyberstalking siano confacenti al reato in questione, dal momento che integrano l’elemento oggettivo richiesto per gli atti persecutori. Le vessazioni perpetuate nel virtuale mondo del web, anziché attraverso condotte concretamente e durevolmente percepibili nel mondo reale, devono ritenersi penalmente rilevanti in egual misura (cfr. Cass. Pen., Sez. V, 28 dicembre 2017, n. 57764).

In conclusione, è pacifico che la normativa vigente presti facilmente il fianco a profili di indeterminatezza e contraddittorietà non sempre colmabili dal lavoro interpretativo giurisprudenziale. Il legislatore del ventunesimo secolo è chiamato, ora più che mai, a prestare attenzione nelle proprie politiche criminali anche ai fenomeni dei cyber reati (o delitti informatici), i quali, laddove ignorati, lasciano aperte le porte dell’impunità ai più avvezzi utenti cibernauti.


Bibliografia:

TRINCI A., Compendio Major di diritto penale – Parte generale, Dike Giuridica, 2018.

TRINCI A. FARINI S., Compendio Major di diritto penale – Parte speciale, Dike Giuridica, 2018.

TRINCI A. TOVANI S., Lo stalking, Dike Giuridica, 2013.


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