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Web tax: che cos’è?

Un’introduzione al tema dell’imposta sui servizi digitali

di Riccardo Giacobbi

  1. PREMESSA

30 dicembre 2018, Camera dei Deputati: dopo il sì anche del Senato, la nuova legge di bilancio (L. 145/2018) viene approvata con 370 voti favorevoli.

Essa dichiara, all’art. 1, co. 35, che “è istituita l’imposta sui servizi digitali”.

Niente di nuovo, in realtà. Infatti, già la L. 205/2017, all’art. 1 co. 1011, stabiliva che “è istituita l’imposta sulle transazioni digitali”.

Tuttavia, l’operatività della detta imposizione fiscale era subordinata all’emanazione di apposito decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze; in assenza di tale decreto, la web tax classe 2018 (operativa, teoricamente, dal 1° gennaio 2019) non entrava in vigore. Così il governo della XVIII legislatura ci riprova; ed anche la nuova manovra, come si avrà modo di approfondire più avanti (infra “Work in progress”), si rimette, per la sua attuazione ad un emanando 2019 decreto ad hoc del Ministro competente.

L’intenzione di introdurre una forma di web tax, tra l’altro, unisce forze di colore politico diverso; anzi, è comune ai governi di svariati paesi. Difatti, in attesa di una disciplina sovranazionale della tassazione della digital economy, l’opinione pubblica, soprattutto europea, si sta interrogando su come contrastare l’evidente emorragia di gettito fiscale in tale ambito.

  1. LA GENESI DELLA WEB TAX

Seppur annotata sulla maggior parte delle agende pubbliche, la web tax non ha ancora trovato una sua concretizzazione legislativa.

In realtà, il diritto italiano vigente annovera una norma tributaria che, inter alia, ben può rilevare per gli operatori internet: l’art. 1 bis D.L. 50/2017, convertito in L. 96/2017 che prevede una speciale “procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata” per quegli importanti gruppi multinazionali che, pur avendo la propria sede altrove, mantengono una forte presenza sul tessuto economico italiano. Si tratta di una sorta di collaborazione volontaria (voluntary disclosure) tra le grandi – presupposto soggettivo dimensionale – multinazionali estere e l’amministrazione finanziaria al fine di verificare la sussistenza o meno della “stabile organizzazione” – presupposto oggettivo – e, in caso di risposta affermativa, permettere di sanare la loro posizione fiscale, con vantaggi dal punto di vista sanzionatorio amministrativo e penale.

Ciò conduce al fulcro della questione: il problema non è tanto l’esistenza o meno dell’imposta sul reddito digitale quanto il concetto di stabile organizzazione.

Partendo dal principio per cui gli utili dovrebbero essere tassati nel luogo in cui è creato il valore, le norme fiscali fanno comunque discendere, di regola, il diritto a tassare (e in che misura) prioritariamente in base alla presenza fisica della persona, la quale, se non residente a fini fiscali, è soggetta a imposta in altro Paese solo se ha una presenza che costituisce una stabile organizzazione.

Il problema, dunque, nasce con l’avvento dei servizi digitali, che, per la loro fornitura, prescindono dalla presenza fisica del prestatore. Le regole fiscali non sono in grado di far fronte al contesto contemporaneo: attività immateriali, raccolte dati da remoto, commercio elettronico, tutte che producono reddito, senza una (reale) presenza fisica.

Prendendo in considerazione i grandi operatori digitali, non si può non constatare una disparità tra lo Stato ove l’utile viene tassato e lo stato ove viene creato il valore. Da qui, riportando un chiaro passaggio della proposta di direttiva dell’Unione Europea (2018/0073) si può segnalare che “i contributi che un’impresa ottiene dagli utenti, che di fatto costituisce la creazione di valore per l’impresa, potrebbero provenire da una giurisdizione fiscale in cui l’impresa che esercita un’attività digitale non è fisicamente stabilita e dove quindi i ricavi generati da tali attività non possono essere tassati. In secondo luogo, anche se un’impresa ha una stabile organizzazione nella giurisdizione in cui si trovano gli utenti, il valore creato attraverso la partecipazione degli utenti non viene preso in considerazione ai fini della determinazione della quota dell’imposta che dovrebbe essere versata in ciascun paese. Inoltre questa situazione ha delle conseguenze in termini di rischio di elusione artificiale delle norme relative alla stabile organizzazione, crea una distorsione della concorrenza tra i soggetti del mercato digitale e incide negativamente sui ricavi.

Di conseguenza, si comprende come assicurare una tassazione equa dell’economia digitale sia davvero argomento cruciale.

La stessa Unione Europea, infatti, prendendo atto della lentezza del processo di attuazione di una soluzione globalmente ammessa, non ha potuto fare a meno di prendere in sera considerazione le istanze dei singoli Stati membri. Non somministrare quest’ultimi di una disciplina europea di riferimento minerebbe il principio dell’uniformità e dell’armonia delle leggi del vecchio continente.

Le iniziative dei singoli paesi non sono gli unici passaggi meritevoli di nota, come qui di seguito illustrato:

  1. il progetto B.E.P.S. (Base Erosion and Profit Shifting) dell’OCSE, iniziato nel 2013 e portato tuttora avanti con periodici esiti di massima rilevanza, uno fra tutti la presentazione delle “15 azioni”; nella prima azione, invero, si segnala come le molteplici modalità di limitazione del carico fiscale, di erosione della base imponibile e di spostamento dei profitti negli ordinamenti a fiscalità migliore vengano amplificate dall’elevato grado di dematerializzazione che caratterizza le digital enterprises. Mettere in dubbio i detti presupposti significa anzitutto rivedere il concetto di presenza fisica della persona giuridica, tematica che si intreccia con una serie di temi che sono oggetto di altre azioni, come, appunto, la definizione di stabile organizzazione, oltreché le regole sulle controllate estere ed il fenomeno del transfer pricing;
  2. le conclusioni del Consiglio ECOFIN del 5 dicembre 2018;
  3. la dichiarazione politica di Italia, Spagna, Germania e Francia del settembre 2017, ossia la missiva alla Presidenza della Commissione Europea dei ministeri economici dei quattro paesi in cui con forza si afferma che “We should no longer accept that these companies do business in Europe while paying minimal amounts of tax to our treasuries. Economic efficiency is at stake, as well as tax fairness and sovereignty”, sollecitando quindi una imposizione fiscale adeguata alle imprese de quibus.

Ma come formulare tale imposizione fiscale agli operatori digitali che, malgrado producano redditi virtuali in molteplici stati, pagano le tasse, però, soltanto in uno?

  1. LA NASCITURA WEB TAX ITALIANA

Riadattare principi e clausole generali del diritto tributario deve essere fatto a livello mondiale. Questo vorrebbe dire inserire le nuove regole nelle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni. L’impasse è inevitabile.

Da qui l’adozione da parte dei sistemi fiscali nazionali di soluzioni di natura transitoria, quale quella formalizzata dall’Italia, fortemente intenzionata, come si diceva sopra, ad introdurre una regola fiscale che permetta di assoggettare il reddito generato online al prelievo erariale da subito e sino a nuovi accordi sovranazionali.

Si annoti, incidentalmente, che l’intento del legislatore emergeva già con la legge di stabilità 2014 (L. 147/2013), con cui si prevedeva l’obbligo di attivare una partita IVA in Italia per i pubblicitari operanti sul web (disposizione poi abrogata con il D.L. 16/2014, convertito in L. 68/2014). Significativa, inoltre, era la versione originaria della manovra 2018, che prevedeva (i) obbligo per gli intermediari finanziari incaricati di effettuare, per conto dei propri clienti, pagamenti a favore di soggetti non residenti di identificare quest’ultimi, (ii) in caso, durante un semestre, di un numero di transazioni oltre 1.500 per un valore totale non inferiore a Euro 1.500.000,00, poteri di verifica dell’Agenzia delle Entrate di invitare il soggetto non residente a discutere in contradditorio la propria posizione fiscale in Italia, in particolare la sussistenza o meno della sua stabile organizzazione, (iii) modifiche, in via ampliativa, alla nozione di “stabile organizzazione” di cui all’art. 162 T.U.I.R. e, in aggiunta, (iv) una nuova imposta sulle “attività digitali pienamente dematerializzate” nella misura del 6%.

Seguirono altri emendamenti (alla fine limitava la rilevanza dell’imposta alle transazioni rese a favore di sostituti di imposta in forza dell’art. 23 D.P.R. 600/1973 e stabili organizzazioni di soggetti non residenti, dunque solo in “salsa business”) sino all’approvazione, che si rivelò poi superflua per la mancata entrata in vigore, come sopra spiegato.

Come parimenti anticipato, il testimone veniva preso dal Governo Conte, con la manovra 2019.

3.1 COSA 

Per quanto concerne l’ambito oggettivo, l’imposta si applica ai ricavi derivanti dalla fornitura dei servizi derivanti dal co. 37 dell’art. 1 della legge di bilancio 2019:

a) veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; b) messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contattoe di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi; c)  trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale. E’ evidente che non rientra nell’ambito applicativo l’e-commerce indiretto, cioè quello che ha per oggetto la cessione di beni materiali, la cui stipulazione del contratto e pagamento del prezzo avvengono per il tramite dello strumento digitale, ma la cui consegna avviene mediante mezzi tradizionali. A fini fiscali – nell’ambito dell’imposta sul valore aggiunto – sono operazioni assimilabili alle vendite per corrispondenza.

Invece, rientra ratione materiae il commercio elettronico diretto, che ha per oggetto soltanto servizi digitali e le cui fasi sono effettuate dall’inizio alla fine in via telematica.

La definizione di servizi prestati tramite mezzi elettronici risiede nell’art. 7, del Reg. UE 282/2011 (recante disposizioni di applicazione della direttiva 2006/112/CE relativa al sistema comune di imposta sul valore aggiunto) che offre all’interprete un supporto per l’individuazione dei servizi a cui debba applicarsi la web tax: un software, un sito web, internet service packages (pacchetto di accessi a notizie / informazioni meteorologiche, spazi di gioco, ecc.), warehousing ed altri (Allegato I Reg. UE 282/2011). Esclusi dal novero saranno, tra gli altri, i servizi di telecomunicazione, giochi su CD-ROM, servizi di insegnamento online, prenotazioni online di biglietti di ingresso ad una manifestazione culturale, sportiva, ovvero di alberghi, ristoranti, trasporto aereo, ecc.

Infine, ai sensi del co. 38, rimangono esclusi i servizi c.d. “infragruppo”, ossia i servizi resi a soggetti che, ai sensi dell’art. 2359 c.c., si considerano controllati, controllanti o controllati dallo stesso soggetto controllante.

3.2 CHI

Per quanto concerne l’ambito soggettivo, l’imposta si applica quando (a) il prestatore del servizio è uno dei soggetti determinati dall’art. 1 co. 36 e, contemporaneamente, (b) l’utente del servizio è un soggetto che si considera localizzato in Italia nell’anno solare in cui il servizio è tassabile ai sensi dell’art. 1 co. 40.

Coerentemente alla menzionata proposta di direttiva europea, il prestatore di servizio è un soggetto, esercitante attività d’impresa, che, come singolo o a livello di gruppo, realizza congiuntamente:

– un ammontare non inferiore a a750 milioni di Euro di ricavi complessivi, ovunque effettuati e da qualunque attività derivanti;
– un ammontare non inferiore a 5 milioni e 500 mila Euro di ricavi derivanti da servizi digitali rilevanti ai fini dell’imposta e realizzati in Italia.

Ai sensi dell’art. 1 co. 43, i soggetti non residenti senza una stabile organizzazione in Italia e senza una partita IVA italiana che, nel corso di un anno solare, integrino i suddetti requisiti dimensionali, sono tenuti a richiedere all’Agenzia delle Entrate un numero identificativo ai soli fini dell’imposta sui servizi digitali; lo stesso capoverso, terzo periodo, stabilisce che i soggetti residenti nel territorio dello Stato che fanno parte dello stesso gruppo societario di soggetti non residenti sono solidalmente responsabili con questi per gli obblighi legati all’imposta sui servizi digitali.

Esaminati i soggetti passivi, il comma 40 fa chiarezza su cosa si intenda cosa si intenda per utente del servizio localizzato nel territorio dello Stato durante l’anno solare (che determina il periodo d’imposta, come specificato dalla norma in oggetto). Qui non c’entra la residenza fiscale dell’internauta: ad esempio, quando il servizio comporta una interfaccia digitale multilaterale che facilita le corrispondenti cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra gli utenti, l’utente si considera in Italia se utilizza un dispositivo in Italia nel detto periodo d’imposta per accedere all’interfaccia digitale e conclude un’operazione corrispondente su tale interfaccia in detto periodo d’imposta.

3.3. QUANTO E COME

Per quanto concerne la misura del tributo, ex art. 1 co. 41 legge di bilancio 2019, la web tax è dovuta nel quantum del 3%.

Questo si applicherà sull’importo dei ricavi tassabili realizzati dal soggetto passivo in ogni trimestre, ricavi che debbono essere assunti al lordo dei costi ed al netto dell’IVA e di altre imposte indirette.

Come dettato dal co. 42, i soggetti passivi sono tenuti al versamento dell’imposta entro il mese successivo a ciascun trimestre e alla presentazione della dichiarazione annuale dell’ammontare dei servizi tassabili prestati entro quattro mesi dalla chiusura del periodo d’imposta. In termini di accertamento, sanzioni, riscossione, contenzioso, si applicheranno le regole previste in materia di IVA, in quanto compatibili. Le affinità con la disciplina dell’IVA conducono la dottrina (tra gli altri, E. Zanetti) a ritenere che il momento di realizzo sia da individuarsi nel momento del pagamento del corrispettivo del servizio da parte dell’utente (come fissato dall’art. 6 D.P.R. 633/1972).

  1. WORK IN PROGRESS

Come la web tax 2018, mai nata, anche la web tax 2019, sopra nominata, appunto, nascitura, attende il suo apposito decreto ministeriale, da emanare entro il 30 aprile 2019. A tali disposizioni attuative seguiranno poi uno o più provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate per i profili maggiormente applicativi.

In ogni caso ci si può aspettare che, come accaduto per il testo legislativo, anche il decreto attuativo riecheggerà il Progetto di direttiva europea sulla Digital Service Tax.

Ad esempio, quando si parlava di localizzazione dell’utente, se, per un verso, le regole risultano identiche (art. 1 comma 40 l. bilancio e art. 5 proposta di direttiva), per altro verso, non viene indicato come avverrà la localizzazione del dispositivo: per mezzo dell’indirizzo IP (come si legge nella proposta europea) o con altro strumento di geo-localizzazione?

La risposta a questo ed altri interrogativi arriverà con il DM, da adottarsi ex art. 1 comma 45, nel termine suindicato e di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico e sentite l’AGCOM, il Garante Privacy e l’Agenzia per l’Italia Digitale.

L’entrata in vigore dell’imposta sui servizi digitali decorrerà dal 60° giorno successivo alla data (termine il 30 aprile 2019) di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto di attuazione.

Da quel momento il nostro ordinamento, in attesa di una rimodulazione in ottica digital del concetto di stabile organizzazione, sarà dotato di una regola tributaria che assoggetta a tassazione l’economia digitale (un giro da circa 27 miliardi di euro l’anno, n.d.r.) e che promette di essere allineata alla disciplina europea.


Riferimenti

  • Proposta di direttiva del Consiglio relativa al sistema comune d’imposta sui servizi digitali applicabile ai ricavi derivanti dalla fornitura di taluni servizi digitali – Progetto COM(2018)148 Final, Bruxelles 21.3.2018.
  • Legge 30 dicembre 2018, n. 145 – Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021.
  • Legge 27 dicembre 2017, n. 205 – Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020.
  • The Political statement – Joint iniziative on the taxation of companies operating in the digital economy (Ministere de l’Economie et des Finances, Bundesministerium der Finanzen, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministerio de Economia, Industria e Competividad, settembre 2017).
  • Rispondere alle sfide della tassazione degli utili dell’economia digitale”, FISC 346 ECOFIN 1092.
  • OCSE (2015), ‘Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy: Action 1 – 2015 Final Report’, edizioni OCSE, Parigi.
  • Zanetti, L’imposta sui servizi digitali, in Eutekne.info, 2018.
  • Gatto, Web tax: disciplina italiana ed europea a confronto, in Ipsoa Quotidiano, 2019.
  • Bisioli – A. Zullo, Web tax: una lettura in chiave comunitaria, in Corriere Tributario 13/2018.
  • Cerrato, La procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata in materia di stabile organizzazione (c.d. web tax transitoria), in Rivista di diritto tributario, 2018.

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