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Essere o non essere: criptovalute e conferimento in società di capitali

Alcune criticità in merito alla natura giuridica delle criptovalute rispetto alla loro conferibilità nelle società di capitali

di Pietro Fazzini

La crescente diffusione delle criptovalute non soltanto quale forma di investimento alternativo ma anche come strumento di pagamento “corrente”[1] – non più dedicato esclusivamente alla nicchia delle transazioni tra utenti del web – impone di affrontare alcuni quesiti giuridici di assoluto rilievo.

Uno di questi riguarda la possibilità di utilizzare le criptovalute quale bene conferibile in società – e specificamente in società di capitali – al fine di liberare le partecipazioni sottoscritte dal socio, tanto in sede di costituzione quanto in sede di aumento del capitale. Tale questione, dagli esiti ancora incerti, come vedremo, sta ottenendo crescente interesse presso gli operatori economici, dal momento che da essa dipende la possibilità di utilizzare le criptovalute per un vasto numero di impieghi produttivi, attraverso il ricorso alla forma organizzativa largamente più diffusa e cioè quella societaria.

La risposta all’interrogativo principale dipende, in sostanza, dalla riconducibilità o meno delle criptovalute – che nella prassi vengono prevalentemente impiegate come strumenti di pagamento – al concetto (invero assai più ristretto) di “moneta avente corso legale”. In materia di società di capitali, infatti, la disciplina dei conferimenti a capitale è rigidamente disciplinata, al fine di garantire che i beni acquisiti nel patrimonio della società siano suscettibili di valutazione economica e possano essere oggetto di esatta valutazione quanto al loro valore; il tutto con l’obiettivo di garantire la corretta formazione del capitale stesso ed evitare l’emergere di capitale c.d. “fittizio”. Nella disciplina del codice civile sussistono infatti due (nelle S.p.A., e tre nelle S.r.l.) macro-tipologie di beni conferibili: (i) il denaro; (ii) i beni in natura, comprensivi dei crediti; e (iii) i servizi e le prestazioni d’opera (nelle sole S.r.l.). Mentre per la prima tipologia non sono richieste particolari formalità, gli artt. 2343 e ss. e 2464 e ss. c.c. prevedono una procedura di stima formale dei beni appartenenti alle altre due categorie, che affida alla valutazione di un perito indipendente la stima esatta del valore del bene attribuibile al fine della determinazione del capitale sociale emesso in corrispondenza. La peculiare natura delle criptovalute impone di chiedersi a quale categoria debbano ricondursi: se alla prima, alla seconda o, come sostenuto da alcuni, a nessuna delle due (tre) con la conseguente impossibilità di essere fatte oggetto di conferimento in società.

La prima soluzione (criptovaluta = denaro) sembrerebbe quella più aderente alla percezione comune delle stesse come moneta virtuale alternativa (lo stesso nome composto “Bit-coin”, la criptovaluta di gran lunga più conosciuta, sembra suggerirlo). Le conclusioni divergono, tuttavia, in termini strettamente giuridici. La regola generale in materia di conferimenti prevede infatti che, in mancanza di diversa previsione nello statuto, i conferimenti debbano farsi “in denaro”. Tale riferimento ha una precisa connotazione giuridica e deve ricondursi non ad una nozione generica bensì specifica di denaro e cioè quella prevista nel diritto positivo, e precisamente dallo stesso codice civile, ove si afferma che «[i] debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento» e, cioè, dal 1 gennaio 1999, l’euro. Pertanto, la riconducibilità alla nozione legale di denaro si fonda soltanto sulla volontà espressa del legislatore statuale[2] e non invece sull’interpretazione letterale del lemma nel significato corrente. Ne è riprova il fatto che le valute estere, incluse quelle di maggiore diffusione quali ad esempio il dollaro americano o la sterlina britannica, non sono considerate denaro a tali fini e, pertanto, necessitano di una valutazione di stima alla stregua di qualsiasi altro bene in natura. Sebbene ciò possa apparire contro intuitivo, la logica sottostante è chiara: le valute non aventi corso legale nel Paese la cui legge regola il conferimento sono intrinsecamente suscettibili di una volatilità – espressa dal tasso di cambio – cui la moneta legale è sottratta ipso facto in quel dato Paese. E ciò le accomuna maggiormente, alla luce della ratio della disciplina, ai beni in natura quali crediti, beni immobili o componenti di magazzino. Da quanto detto sembrerebbe ragionevole desumere che conclusioni analoghe possano trarsi anche con riferimento alle criptovalute. Infatti, al momento la legge italiana non attribuisce alle stesse natura di moneta, salvo che a limitati fini fiscali[3], né tantomeno valore legale lasciando quindi aperto il loro inquadramento nelle categorie residuali.

Di tale avviso sembra essere altresì il Tribunale di Brescia, che per primo si è occupato della specifica questione[4]. Tale decisione afferma, senza soffermarsi in particolari argomentazioni, la necessità di una perizia di stima indipendente (quindi implicitamente confermando il ragionamento di cui sopra), ma tuttavia ritiene che essa da sola non sia di per sé sufficiente. È facile constatare, infatti, l’ampio numero di criptovalute ormai in circolazione, le quali differiscono anche molto significativamente in termini di capitalizzazione di mercato[5], stabilità e affidabilità (anche sotto il profilo dei c.d. “scam-coin”, ovverosia le truffe). Pertanto, non è agevole – né metodologicamente corretto – ricondurle tutte in maniera indistinta ad una definizione e ad una disciplina unitarie. Diversamente, è necessario valutare caso per caso, con riferimento alle caratteristiche concrete di ogni criptovaluta e prendendo in considerazione i parametri di cui sopra, se esse possiedano un effettivo valore patrimoniale e se questo sia suscettibile di una qualche valutazione affidabile.

Sebbene il provvedimento giudiziale citato lasci apparentemente margine per un certo ottimismo, nella direzione di maggiore apertura del capitale delle società alle criptovalute[6], va detto che il Tribunale evidenzia – soltanto incidentalmente in quanto non decisivi nella soluzione del caso in esame – alcuni ostacoli pratici non irrilevanti alla conferibilità delle criptovalute:

  • la volatilità dei valori di molte criptovalute (incluse quelle più importanti, almeno in alcuni periodi) può rappresentare un significativo ostacolo alla corretta valutazione da parte dell’esperto, il quale non può appoggiarsi su metodologie di valutazione diverse da quelle che hanno come base il valore di mercato (dal momento che non si tratta di beni produttivi né di beni materiali, aventi un loro valore intrinseco); e
  • l’impossibilità di sottoporre ad esecuzione forzata le criptovalute senza la cooperazione del titolare del portafoglio elettronico, dal momento che il trasferimento delle stesse su blockchain non può avvenire senza la private-key, che lo stesso potrebbe rifiutarsi di comunicare.

Inoltre, il decreto del Tribunale di Brescia sopra citato – che aveva ritenuto sì non conferibile nel caso di specie la criptovaluta “ONE COIN” ma soltanto per mancanza di un sufficiente mercato di riferimento nel caso concreto[7] – è stato successivamente confermato in sede di appello[8]. Tuttavia, in tale sede la Corte di Appello ha di fatto sovvertito le conclusioni raggiunte dal Tribunale in punta di diritto, gettando nuovi (e forse ancor maggiori) dubbi circa la conferibilità di criptovalute in generale. La Corte, muovendo dal presupposto che la criptovaluta è utilizzata concretamente con funzione di moneta alternativa a quella tradizionale avente corso legale, ritiene che la stessa debba essere assimilata, sul piano funzionale, al denaro, cioè quale mezzo di scambio nella contrattazione in un dato mercato. Pertanto, la stessa non può essere considerata alla stregua di beni, servizi o altre utilità, che sono, come tali, suscettibili di acquisto con impiego del denaro, e perciò idonei ad essere economicamente oggetto di valutazione tecnica mediante perizia di stima. L’effettivo valore economico della criptovaluta non può in conseguenza determinarsi mediante perizia, non essendo possibile, per le ragioni sopra esposte, attribuire valore di scambio ad un’entità essa stessa costituente elemento di scambio nella negoziazione. D’altro canto, si deve constatare che allo stato le criptovalute non sono equiparate in forza di legge alla moneta legale né esiste un sistema di cambio che consenta di assegnare, almeno alla maggior parte di esse, un controvalore certo in euro.

Pertanto, in assenza di tali condizioni – allo stato raramente ricorrenti – ritenute necessarie per una valutazione concreta del quantum, le criptovalute sarebbero di fatto sostanzialmente insuscettibili di essere conferite nelle società di capitali. L’impressione che si ricava dai primi pronunciamenti in materia è quella che si tratti di posizioni di “assestamento” iniziali e che difficilmente possano porre una parola non certo definitiva ma nemmeno duratura sull’argomento. Parimenti, però, appare evidente che la dicotomia originale conferimenti in denaro-conferimenti in natura prevista dalla disciplina codicistica mal si attagli al caso del tutto nuovo delle criptovalute. E che ciò possa, almeno nel breve periodo, in assenza di un intervento legislativo che vi attribuisca valore equiparato a quello della moneta legale – che per il momento non si intravvede nel futuro più immediato, sebbene appaia a mio avviso la soluzione più razionale e ragionevole – comportare notevoli ostacoli nel ricorso alle stesse nelle operazioni di capitalizzazione delle società.


[1] Con ciò ci si riferisce ad operazioni commerciali che coinvolgono operatori privati e di notevole diffusione nella pratica ordinaria non soltanto degli affari ma anche dei negozi di diritto privato (quali vendite immobiliari, compravendite di partecipazioni societarie, conclusione di contratti commerciali, etc.). Sebbene la diffusione dell’uso delle criptovalute in tali ambiti richieda, comprensibilmente, un tempo significativo per consolidarsi, sono noti alle cronache specialistiche già alcuni significativi esempi. Tra questi, ad esempio, particolare risonanza hanno avuto la prima vendita immobiliare stipulata davanti ad un notaio regolata mediante pagamento di criptovaluta (cfr. l’articolo “A Torino dalla Cina per pagare la casa con la criptomoneta”, su La Stampa del 31 gennaio 2018), nonché l’acquisto di una partecipazione minoritaria nella società del Rimini Calcio (cfr. l’articolo “Rimini Calcio, entra un nuovo socio: il 25% pagato in criptovaluta” su Il Sole 24 Ore del 29 agosto 2018).

[2] Nel caso di specie trattandosi, più precisamente, di un recepimento indiretto da parte del legislatore italiano, dal momento che l’introduzione della moneta unica è avvenuta per effetto della ratifica del Trattato di Maastricht, che ha effetto diretto negli Stati membri quale norma avente rango (super)primario.

[3] Il legislatore si limita infatti ad annoverare le criptovalute tra gli “strumenti di pagamento”, definendole “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente» (novellato art. 1, co. 2 lett. qq, D.Lgs. 231/2007, come modificato dal D. Lgs. 90/2017). Con la Risoluzione n. 72/E/2016, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito il trattamento fiscale, sia ai fini Iva che ai fini delle imposte dirette (Ires e Irap), applicabile alle operazioni di acquisto e di cessione di moneta virtuale, sulla base anche di quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza 22 ottobre 2015, causa C-264/14. Quanto agli utilizzatori, in particolare, già in base alla normativa attuale, le criptovalute potrebbero essere dunque considerate moneta virtuale, assimilabile a valuta corrente estera.

[4] Cfr. Trib. Brescia, 18 luglio 2018, su www.giurisprudenzadelleimprese.it

[5] Una stima aggiornata della capitalizzazione di mercato delle principali criptovalute in circolazione è disponibile su www.coinmarketcap.com

[6] Così, ad esempio, Campagna B., Limiti all’utilizzabilità delle criptovalute in sede di aumento di capitale. Commento

a Tribunale di Brescia, 25 luglio 2018, n. 7556, su www.dirittobancario.it, 2018, secondo il quale «[i]l decreto in esame rappresenta quindi un ulteriore passo in direzione del riconoscimento della criptovaluta quale valido elemento dei rapporti commerciali tra privati».

[7] Così si legge infatti nel decreto del Tribunale di Brescia: «emerge una moneta virtuale ancora in fase sostanzialmente embrionale […], che – allo stato – non presenta i requisiti minimi per poter essere assimilata a un bene suscettibile in concreto di una valutazione economica attendibile».

[8] Cfr. App. Brescia, 24 ottobre 2018, su www.giurisprudenzadelleimprese.it


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