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(Digital) Gender Gap: tra sostenibilità ed evoluzione

di Marianna Schiavone


La disuguaglianza di genere (in inglese “gender gap”) è una delle diverse problematiche globali presenti nella nostra società e da tempo in essa radicata.

Per “disuguaglianza o divario di genere” si intende la differenza di prospettive e probabilità – di qualsiasi natura – dovute all’appartenenza a un genere. Mentre tra gli anni ‘50 e ‘60 iniziano i primi studi scientifici di genere, solo negli anni ‘70 si inizia a discutere della condizione femminile e in particolare, nel 1975 l’antropologa Gayle Rubin è la prima a parlare di “sex-gender system”, dove si afferma che “il genere è una divisione dei sessi imposta socialmente, cioè è un prodotto dei rapporti della sessualità stabiliti dal sistema sociale[1] che viene poi trasformata in una disparità tra uomo e donna.

Il fenomeno è da anni dibattuto soprattutto a livello internazionale da diverse istituzioni come l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (“ONU”)[2], l’Unione Europea, il World Economic Forum[3]. Proprio quest’ultimo nel 2006 ha anche introdotto il “Global Gender Gap Report”, uno studio volto a catturare la dimensione del divario tra donne e uomini in più Paesi in quattro diverse aree: partecipazione attiva nel mondo economico e relative opportunità, istruzione, salute e emancipazione politica.[4] Nonostante si discuta da tempo di questa problematica, secondo l’ultimo report del WEF del 2022, sarebbero necessari altri 132 anni per colmare il divario di genere globale, quindi si può affermare con certezza che il processo di riqualificazione sia ancora tutto in salita e le misure finora messe in atto volte a colmare il divario di genere, in realtà, non sono (state) sufficienti[5].

Una certezza, che è anche quella che spaventa, è che il livello di disuguaglianza può essere misurato in ciascun ambito della vita sociale ed è per questo che man mano che questa si sviluppa si parla di nuovi gender gap da salvaguardare. Difatti, non appena il processo di digitalizzazione ha preso il sopravvento determinando l’inizio dell’era digitale durante i primi anni 2000, si è iniziato a parlare del cd. “digital gender gap” che, principalmente, ha tre diverse componenti:

  • utilizzo e accesso a internet e altre tecnologie,
  • sviluppo di soft-skills per utilizzare e/o partecipare alla progettazione e produzione di nuove tecnologie,
  • copertura di ruoli professionali in ambito digitale.

Probabilmente una delle maggiori cause del “digital gender gap” è determinata dall’accesso all’istruzione in ambito scientifico-tecnologico (STEM) dove le donne continuano ad essere sottorappresentate e gli uomini sovrarappresentati (si parla, infatti, di settore “male-dominated”, assieme a quelli dell’ingegneria e delle costruzioni).

Il Global Gender Gap Report del 2022 ci riporta che negli ultimi cinque anni la percentuale di donne che ha avuto accesso all’istruzione e ha portato a termine il percorso di studi è aumentata ma dal 2013 al 2019 il digital gender gap è rimasto per lo più intatto[6]: la percentuale di donne laureate in Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT) è soltanto dell’1,7%, contro l’8,2% di laureati uomini.

Ciò comporta un consequenziale rallentamento per le donne nella possibilità di sviluppare specifiche competenze di settore e, soprattutto, ricoprire ruoli professionali e avanzare di carriera; infatti, le aziende tendono ad assumere – o a far crescere – donne in ruoli di leadership in settori dove sono già molto rappresentate, ad esempio quello dei servizi sanitari e assistenziali. La stessa situazione viene, di contro, a crearsi anche per gli uomini mettendo a rischio la società impedendole di evolversi davvero.

La società odierna è digitale, quella futura lo sarà ancor di più: l’avanzare della quarta rivoluzione industriale, l’espansione delle esistenti tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) e lo sviluppo di quelle nuove stanno focalizzando sempre di più l’attenzione sul digital gender gap, il quale è diventato un importante indice di sostenibilità (di organizzazioni e aziende pubbliche o private, ma anche della società). Secondo l’Agenda 2030 dell’ONU, infatti, “la parità di genere non è solo un diritto umano fondamentale, ma la condizione necessaria per un mondo prospero, sostenibile e in pace[7].

La gestione di un’organizzazione o azienda secondo i cd. criteri ESG[8] è ormai imprescindibile. Grazie a questi ultimi il concetto di sostenibilità dal fattore ambientale viene esteso anche a tutte quelle attività che hanno un impatto sociale, ad esempio, in merito alle relazioni con il territorio e le persone e a quelle di governance che conducono ad una gestione – aziendale/organizzativa – ispirata a buone pratiche e principi etici, come il rispetto delle minoranze o delle pari opportunità.

Ne deriva che una società, e di conseguenza le sue molteplici espressioni in termini politici, pubblici o privati, che non sia in grado di assicurare la parità di genere o colmarla efficacemente e in tempi brevi non può essere considerata sostenibile o evoluta.

Addirittura, il concetto di sostenibilità si allontana in modo significativo se si pensa alle forti limitazioni che la società impone all’idea di “genere” e parità di genere circoscritta a uomo e donna: può forse la decostruzione del concetto di “genere” aiutarci a vedere il divario di genere sotto altri punti di vista e, contemporaneamente, aprire nuove strade verso la parità di genere?


[1] Rubin G., Lo scambio delle donne. Una rilettura di Marx, Engels, Lévi-Strauss e Freud, p. 42, in Antologia Toward an Anthopology of Women a cura di R. R. Reyter, New York, London, Monthly Review Press

[2] L’Organizzazione delle Nazioni Unite è un’organizzazione intergovernativa a carattere mondiale fondata nel 1945 e ha come obiettivo principale quello di preservare la pace e la sicurezza collettiva attraverso la cooperazione internazionale

[3] Di seguito anche “WEF”. Il World Economic Forum è un’organizzazione internazionale indipendente senza scopo di lucro. E’ nata come “fondazione no-profit” nel 1971 a Cologny, in Svizzera. Si occupa, principalmente, di organizzare forum, incontri ed eventi di matrice globale tra leader politici e di organizzazioni non governative ma opera anche come “think thank” approfondendo le principali problematiche globali attraverso pubblicazioni e report specifici.

[4] World Economic Forum (Professor Ricardo Hausmann, Harvard University Professor Laura D. Tyson, London Business School Saadia Zahidi, World Economic Forum), The Global Gender Gap Report, report, 2006

[5] Tra le misure internazionali maggiormente conosciute si veda l’Agenda 2030 istituita nel 2015 dall’ONU, ossia un piano d’azione internazionale costituito da 17 diversi obiettivi dove il quinto è rappresentato dalla parità di genere e le due strategie della Commissione Europea: la prima “Strategic Engagement sulla Gender Equality” per il triennio 2016-2019 e poi la “Strategia per la parità di genere 2020-2025”. Tra le altre iniziative (anche più datate) da parte dell’UE si può far riferimento alla Direttiva 2006/54/EC (ancora efficace) riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, la Raccomandazione del 2014 della Commissione Europea sulla trasparenza come mezzo di rafforzamento del principio della parità retributiva tra uomini e donne attraverso la trasparenza.

Il governo italiano nel 2021 ha ideato una propria strategia (Strategia Nazionale per la Parità di Genere) e il 30 aprile 2021 ha presentato il suo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) approvato nel luglio 2021 dal Consiglio dell’Unione Europea. Il PNRR si inserisce nel programma “Next Generation EU” e si sviluppa attorno a tre assi strategici, tra cui l’inclusione sociale che ha come una delle priorità principali la parità di genere (Missione 5: inclusione e coesione).

[6] World Economic Forum, cit., capitolo 2.7, p. 46

[7] ONU, Agenda 2030, Obiettivo 5 – Parità di genere, p. 7

[8] L’acronimo ESG fa riferimento ai tre pilastri (ambientale, sociale e di governance) di una gestione sostenibile e responsabile di un’azienda e/o organizzazione. Già dagli anni ‘60 si può parlare di “investimento socialmente responsabile” e tra il 2005 e il 2006 si è iniziato a discutere di approccio ESG. Con il passare degli anni le tematiche ESG oltre ad essere sempre più presenti nei processi di investimento, sono state incorporate anche nelle politiche interne aziendali/organizzative permettendo ai criteri ESG di evolversi attraverso i diritti fondamentali della persona e nuovi principi e valori etici da raggiungere


Autrice:

Marianna Schiavone

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